Ritmo e sostenibilità.
In canoa da Aquileia a Venezia
Laguna, 2004
Stavo realizzando il progetto BOA sull’accoglienza dei richiedenti asilo politico nella provincia di Venezia e il viaggio era uno dei temi più ricorrenti nei loro racconti. Il viaggio traumatico che li aveva portati lontano dalla famiglia, dalla propria cultura e da tutto ciò che era stata la loro vita fino a quel momento. Dalle loro parole emergeva la traumatica relazione con l’acqua, con il mare che molti di loro hanno attraversato sotto costante pericolo di morte.
Nel centro di accoglienza si lavorava sul senso di casa, la cura, la scoperta del territorio e l’integrazione sociale, ma era necessario uscire da lì per creare un reale contatto con la città e i suoi abitanti. Esplorare il territorio veneziano è anche attraversare l’acqua della magnifica laguna e incontrare persone che ci vivono e lavorano. L’acqua è la peculiarità del luogo in cui erano arrivati.
Offrendo loro la possibilità di andare in canoa in laguna, era possibile far scoprire il territorio e allo stesso tempo trovare una riconciliazione con l’acqua? Fino a quanto ci si poteva allontanare dalla gronda per poter vivere uno dei luoghi più straordinari della regione?
Così nasce l’idea di mettermi in gioco e fare in prima persona un’esperienza in laguna da proporre al centro di accoglienza, riadattata per coinvolgere i richiedenti ospitati. Presentai l’iniziativa all’associazione Canottieri Mestre di San Giuliano, che con entusiasmo accettarono di aiutarmi. Feci alcune lezioni per imparare a pagaiare, e loro mi fornirono una canoa canadese in alluminio, attrezzata di borse impermeabili per stoccare abiti e cibo, strumentazione d’emergenza e una serie di mappe per la navigazione. Avevo davanti a me dieci giorni in canoa e tenda. Partenza da Aquileia, in Friuli, e arrivo a Venezia, alla Canottieri, passando per i canali interni che uniscono le lagune di Grado, Marano, Caorle e Venezia.
Il primo giorno cercai di adattarmi al nuovo ambiente acquatico e prima del tramonto iniziai a montare la tenda in un’isola disabitata nella laguna di Marano, quando mi trovai circondata da una nuvola nera di zanzare. Asserragliata nella tenda, finito di uccidere l’ultima zanzara, mi addormentai per poi essere svegliata nel mezzo della notte dal rumore d’attracco di motoscafi e un crescente vociare. Stavo ancora cercando di mettere a fuoco quello che stava succedendo, quando partì una musica a palla e di lì a poco mi ritrovai immersa in un rave party di Ferragosto!
Immersa nella natura lagunare, viaggiavo spinta e contrastata dalle sue forze. Quando il vento spingeva a poppa si volava, quando spingeva a prua o di lato c’era solo da faticare. L’acqua ha il suo ritmo a cui bisognava adattarsi, la marea sei ore cala, sei ore cresce e pagaiare contro corrente è un’ardua impresa! Così il terzo giorno sentendomi esausta, piccola, impotente e con il retro pensiero “ma che idea folle mi è venuta”, trovai ristoro in una trattoria sulla gronda. La risata fu esilarante quando mi accorsi che, dai dolori muscolari, non riuscivo a tenere la forchetta in mano e a portare l’avambraccio verso la bocca per mangiare.
Molte volte ho attraversato questi luoghi, usando auto, moto, biciclette, barche a motore, ma dalla canoa la prospettiva del paesaggio cambia.
Lo sguardo è a pelo d’acqua e da lì dovevo orientarmi. Quando le sponde dei canali erano coperte di alti canneti (capitava spesso) non si vedeva l’orizzonte, le mappe allora servivano poco e non restava che andare a naso, guardando la direzione della corrente. Sbagliare l’imbocco di un canale, per passare da una laguna all’altra, significava perdere ore di forza fisica e luce diurna. Non c’erano bar lungo la via dove fermarsi per chiedere informazioni, perciò quando incontravo altre barche sbracciavo esagitata per farle fermare e avvicinare giusto il necessario per chiedere “Scusi, per Venezia?”. Dopo una risata (i più pensavano ad uno scherzo) chiedevano sempre “Ma da dove vieni? Ma a remi?” e così, dondolando sulle proprie barche, iniziava un dialogo sul motivo del viaggio, l’itinerario, l’attrezzatura, la fatica e i consigli su dove fermarsi la notte, magari vicino ad una trattoria lagunare.
Cambiare prospettiva, perdere i propri codici di riferimento non è per niente male, anche perdersi è buon argomento per fare nuovi incontri e ritrovarsi.
Porticciolo turistico di Jesolo, penultima tappa prima dell’arrivo. Seduta nel pozzetto di una barca a vela, con la mappa del mare Adriatico aperta sul tavolo, l’amico armatore mi mostra la distanza fino allora percorsa con l’aiuto di un compasso. Settanta miglia… un po’ come andare a Pula, in Croazia. Meglio non aver fatto quei calcoli all’inizio del viaggio, unendo le dodici mappe che ci erano state consegnate. Mai avrei immaginato di farcela!
Ho passato giornate intere senza incontrare nessun essere umano, a farmi compagnia il fruscio dell’acqua e del vento, i pesci, anche volanti, gli uccelli, gli insetti, le nutrie e i cigni, che vissuti a livello dell’acqua non sono poi così amichevoli e magici come nelle favole. C’è voluto del tempo per abituarmi all’ambiente, capire come muovermi evitando le correnti contrarie, non arenarsi durante la bassa marea, non dare da mangiare agli animali… la natura ha le sue regole, i suoi tempi e ritmi che sembrano sornioni e ripetitivi, ma lo scenario può cambiare improvvisamente.
Un temporale, il vento di Bora che spinge a terra o una tromba d’aria, come quella che mi ha sorpreso a poche miglia dal molo di San Giuliano, dove il viaggio sarebbe terminato. È incredibile la forza fisica e mentale che emergono in certe occasioni. Istinto di sopravvivenza.
Messi i piedi a terra, dopo la doccia bollente che ha riattivato le mie dita congelate, il pensiero ritorna ai racconti di viaggio dei richiedenti asilo ospitati al centro d’accoglienza.