Una volta, in una galleria

Riccardo Caldura
Catalogo della mostra Questa è Arte, se fai in modo che lo sia
Galleria Contemporaneo, Venezia-Mestre 2010

È un’occasione più unica che rara avere la possibilità di gettare uno sguardo d’insieme sul lavoro del sodalizio artway of thinking costituito da Stefania Mantovani e Federica Thiene nel 1993. Inizia allora un particolarissimo percorso artistico, strutturatosi definitivamente in associazione culturale nel 1996 con l’ingresso di un terzo socio, l’architetto e docente universitario Valter Tronchin purtroppo improvvisamente scomparso nel 2009. Il motivo che rende di fatto unica la presente occasione è certamente dovuto alla difficoltà di restituire in uno spazio classico dell’arte, come è una galleria, un percorso che ha, da sempre, problematizzato la necessità del contenitore artistico, optando piuttosto per un lavoro nel vivo delle cose e delle situazioni, e dunque favorendo in ogni modo  quell’aprirsi relazionale che Mantovani e Thiene hanno individuato essere, fin dall’inizio,  il tratto profondo e il senso stesso del loro operare.
L’opzione di artway of thinking è dunque un’opzione radicale, alla quale il sodalizio si è attenuto con grande coerenza: l’opera come oggetto finito, come compiutezza da esporre allo sguardo di uno spettatore che contempla, ma non partecipa al processo di produzione, non è ciò che interessa loro. E, di conseguenza, l’intera catena che dall’oggetto finito, l’opera d’arte propriamente detta, arriva al pubblico (galleria, museo, dinamiche espositive, rivista e comunicazione di settore, critica d’arte ect) viene vista non tanto come un aspetto di per sé negativo, quanto piuttosto come un aspetto parziale, così parziale da rischiare di far perdere di vista il nucleo profondo di quello che costituisce invece il senso dell’opera, cioè l’instaurarsi di una relazione, di un dialogo, alfine di sviluppare una fase di co-creazione ben al di là di quella ‘vestigia’, di quella panoplia materiale rappresentata dell’oggetto artistico contraddistinto dallo ‘star di fronte’.
Posizione radicale dunque, e che sceglierà percorsi molto tangenziali rispetto a quelli tradizionalmente reputati artistici, preferendo l’operatività sul campo con amministrazioni pubbliche, o comunque con istituzioni e situazioni legate esplicitamente alla sfera pubblica, generando una tipologia di progetti dalla definizione assai indicativa: “community based public art project”. 

Come un cerchio che si allarga progressivamente, da Venezia, luogo da cui ha iniziato e al quale ha fatto reiteratamente ritorno, artway of thinking si è progressivamente espansa a livello nazionale, europeo e oltreoceano. Ma esattamente come un cerchio il cui generarsi è dovuto ad un punto originario, così l’espandersi del loro operare ha sempre fatto riferimento a quel momento iniziale nel quale prima dell’opera vi è un’attività, o meglio ancora una precondizione di disponibilità e di ascolto solo grazie alla quale è possibile qualcosa si generi, purché non si confonda quello che si genererà con un determinato, quanto riconoscibile, manufatto. Togliere di mezzo l’equivoco del manufatto, cioè l’opera, sgomberare letteralmente il campo dalla sua invasività, dal suo ‘peso’ (e non è un caso che Federica Thiene venga da un itinerario accademico basato sulla scultura), costituisce la condizione preliminare.  Ma non si tratta di una posizione polemicamente critica verso l’arte e la creatività, anzi.
Si tratta di una evidentissima fiducia riposta in ciò che si genera sul piano esistenziale in ognuno di noi grazie all’esperienza artistica, una volta che questa non si chiuda nella sola questione dell’opera. Rinunciando a rincorrere il manufatto, è possibile scoprire quel nucleo fondamentale dell’esperire - estetico, artistico, formativo - che è dato non solo dall’interazione con sé stessi, ma soprattutto dall’interazione con l’ambiente e con gli altri, così che questi ultimi possano a loro volta sentirsi creatori e attivi partecipanti a quel processo di scoperta grazie al quale arte e vita potranno disegnare l’ampiezza e l’intersecarsi delle loro reciproche circonferenze.

Se la posizione di artway of thinking è radicale nei confronti dell’arte, o meglio nei confronti di una determinata tradizione dell’oggetto artistico, cionondimeno è sempre l’arte che costituisce il punto di partenza e di approdo. Arte da intendersi come un’attitudine generica e non specialistica, in grado di riportare l’uomo alla sua condizione di apertura non ancora settorialmente organizzata nelle varie discipline del sapere, ed è per questo che l’ambito artistico può costituirsi come il luogo ideale per intersezioni e incontri pluridisciplinari. D’altronde non è possibile dirsi artista come ci si dice avvocato o ingegnere, perché il campo di applicazione dell’arte à la vita stessa, la vita quotidiana, intesa come la vita del singolo nell’interazione con la vita degli altri, cioè con la dimensione comune, nella puntualità di una situazione data.
Questo il senso di quel mit-sein, da intendere soprattutto nella declinazione arendtiana di pluralità, che contraddistingue l’essere stesso dell’uomo e che si rivela paradigmaticamente nella processualità artistica, quando questa viene avvertita come una essenziale condizione relazionale e non come una determinata modalità di produzione in vista di un determinato prodotto.
Che la via seguita da artway of thinking, implichi una riflessione sul senso stesso dell’arte, rispetto all’esperienza umana in generale, lo testimonia il ‘metodo’ che hanno seguito in questi 18 anni di attività, metodo che si è venuto via via raffinando così da prestarsi ad essere tradotto in un diagramma operativo di grande efficacia.
Il metodo nasce da contributi diversi, fra cui certamente quelli artistici riferibili a figure come Duchamp, Beuys e Pistoletto (con cui collaborano da anni), ma anche da altre direzioni: da quelle dell’organizzazione del lavoro in equipe alle pratiche di matrice antropologica e psicoterapeutica, in grado di favorire la scoperta dì sé e il proprio rivolgersi verso gli altri e l’ambiente nel quale viviamo. Nel diagramma del metodo i termini Self e Environment si sovrappongono e si lasciano intravedere, come per trasparenza, l’uno nell’altro.  Ma il gioco grafico del loro affiorare e trasparire vicendevole non è evidentemente solo un gioco. Oppure sì, altro non è che la lieve serietà del gioco, un gioco che non lascia resti dietro di sé, che si consuma e si ripropone nell’essere giocato, e che al massimo si può tradurre in un lungo nastro di ricordi ed esperienze che entra ed esce fra le stanze dell’arte e della vita, un nastro rosso che riporta le notizie di tutte le partite finora giocate. Per le molte ancora da giocare, se si è compreso cosa intende artway of thinking, è certamente inutile cercare il proprio posto sugli spalti.

Riccardo Caldura