Circolarità.
Rileggere artway of thinking
Yucàtan, 2009
I sacerdoti Maya usavano bastoncini incrociati come puntatori per scrutare il cielo ad occhio nudo e così svilupparono un sistema di osservazione, una mappatura astrologica e un calendario che si rivelarono più accurati di quelle delle culture europee dell’epoca. Studiavano il cielo per comprendere i cicli del passato e proiettarli nel futuro, e il loro agire era legato alla ciclicità dell’universo.
Erano passati quindici anni dalla prima azione site-specific e avevo già realizzato 20 processi co-creativi nei territori e 16 workshop, in differenti luoghi e culture. Serviva fermarsi e fare il punto.
Quali elementi ricorrevano nei diversi processi? Quali gli ostacoli e gli errori più comuni? Quali i punti di forza della pratica? Avevo bisogno di guardare se e come la mia pratica artistica si era evoluta e di trovare gli elementi ciclici, ripetitivi, i punti di forza e di debolezza del processo co-creativo sperimentato attraverso la co-creation methodology.
Per trovare un ordine nel caos dell’agire mi sono presa quaranta giorni, sono andata in Yucatan, terra dei Maya, e ho affittato una casa di fronte al mare.
Silenzio, ritmo lento, bellezza, l’ampiezza di uno sguardo che raggiunge l’orizzonte era ciò di cui avevo bisogno: ci sono luoghi nel mondo che ispirano, parlano e hanno un’energia archetipa che aiuta, collabora alla creazione. Vivere quella terra, immergersi nella sua natura maestosa, chiacchierare con i vicini di casa, visitare le imponenti architetture archeologiche mi ha aiutato a ritornare alla visione che mi ha guidato fin dall’inizio della pratica artistica. Mi ha portato a ripensare ancora una volta alle interrelazioni cultura-natura, opera-processo creativo, questa volta in una prospettiva più allargata, oltre i tempi d’esecuzione dei singoli progetti.
Seguivo ritmi naturali. Mi svegliavo al sorgere del sole, lavoravo in casa o in spiaggia, riflettevo passeggiando in riva al mare. Cartelloni densi di schemi, appunti e post-it ricoprivano le pareti di casa ed erano occasione di dialogo con i vicini e i loro amici. A pranzo il più delle volte si mangiava assieme. Ogni giorno Marcos, che viveva in un capanno a fianco, andava a pescare. Partiva a nuoto dalla spiaggia equipaggiato di una vecchia maschera da sub anni ‘70 e un pezzo di filo di ferro dove infilava il pescato: langostine e pesci meravigliosi. Quando usciva dall’acqua con il suo sorriso sdentato e soddisfatto, segnava per noi l’ora di pranzo. Il più delle volte ci invitava a compartir e così seduti alla sua tavola, con una cerveza in mano, ci raccontavamo la vita, mentre i pesci si cuocevano sul barbecue fatto con un bidone di latta.
Intervallavo giorni di totale immersione nel lavoro di rilettura di ciò che avevo realizzato fino a quel momento, con altri di viaggio alla scoperta del territorio e dell’antica civiltà Maya. Il più delle volte cercavo di evitare le principali mete turistiche, prendevo strade minori, sterrate e presto senza indicazioni stradali.
Un giorno, con una piccola auto rossa presa in affitto mi spinsi fino ai confini con il Guatemala e dalla Carretera Federal 186, al bivio di Xpuijl, un piccolissimo centro abitato lungo la strada, svoltai a destra per la “Reserva de la Biosfera de Calakmul”. Percorsi i 130 km che separavano il paesino dal sito archeologico, inoltrandomi nella vegetazione sempre più selvaggia e su una strada sempre più ristretta dalla giungla, con i finestrini abbassati per spirare l’aria autentica di quella terra.
La strada finiva su uno spiazzo sterrato, parcheggio l’auto e inizio il cammino verso il sito archeologico, passando tra enormi alberi secolari, robuste liane e scimmie urlanti appese che si spostavano in ogni direzione. A terra, iguane, un serpente tanto bello quanto minaccioso, regali orchidee tra fiori e foglie dalle più svariate forme e colori; grandi, piccoli e piccolissimi uccelli… un armonico biosistema di cui l’umanità ha perso i codici di relazione. Mi sento un’intrusa. Quando abbiamo interrotto questo legame con la natura selvaggia? C’è ancora modo di risaldarlo? Fino a che punto?
Arrivata ai piedi della maestosa architettura Maya, salgo a quattro zampe i cinquanta metri di scalini della piramide principale. Dalla cima la vastità della giungla mozza il fiato. Ecco la costante relazione: la meraviglia è ciò che ancora lega il nostro sentire alla natura. Seduta sulla pietra calda, guardo quel mare verde che avvolge le architetture Maya e la vegetazione che s’intreccia alla pietra creando nuove forme. Il silenzio è interrotto solo dal cinguettio lontano di qualche uccello.
Il tempo non ha misura in quel sentimento di unione con l’infinito.
Tutto è qui, presente adesso.
Altre volte era John, il proprietario di casa, ad accompagnarmi ad esplorare le splendide spiagge dell’area, ma troppe volte quella bellezza è giunta ai miei occhi defraudata, violentata da chilometri di rifiuti plastici depositati sulla sabbia, slavati dal sole e dal mare, portati dalle correnti atlantiche, scaricati al largo dalle navi da crociera e sulle coste dagli abitanti sudamericani.
Camminavo sulle spiagge bianche tra le immondizie, con sentimenti di rabbia, tristezza, impotenza e chiedendomi se fosse mai possibile imparare dagli errori. Se fosse mai possibile cambiare radicalmente rotta, usando la spinta che produce proprio quell’orrore. Se e come l’arte possa portare la consapevolezza che tutti noi siamo legati in un unico destino planetario e che il nostro agire, anche il più piccolo, influenza inevitabilmente il tutto.
Può portare meraviglia, può ricordarci di aprirci alla meraviglia.
Dopo tanta natura ho bisogno di un po’ di socialità e mi dirigo verso San Francisco de Campeche, città capitale di 220 mila abitanti, sulla costa ovest della regione. Raggiungo il centro storico della città dichiarato Patrimonio dell'Umanità e presto mi ritrovo nel suo cuore: il Parque Principal dove si affaccia la Cattedrale dell'Immacolata Concezione di Maria Vergine. Entro nella chiesa per ripararmi dalla calura. È in corso una celebrazione e mi siedo nei primi banchi perché quello che vedo è per me inusuale: è una donna a officiare la funzione. Così, ascolto curiosa e, senza rendermi conto, mi ritrovo coinvolta in un rito di condivisione: un canto, una testimonianza, un canto un’altra testimonianza. Persone o famiglie intere con disinvoltura si dirigono verso l’altare per raccontare le loro esperienze di vita, i problemi e le soluzioni trovate, “arrivate”: così testimoniano la loro fede. Quelli che vedo sono gesti autentici e intimi, è una comunità che ascolta ed accoglie, pregando con i palmi delle mani rivolte verso il cielo. Sembra tutto così normale: una chiesa cattolica dove la comunità si riunisce per imparare l’uno dall’altro, sostenuti da valori comuni. Eppure, da noi non è così comune.
In macchina, ritornando alla casa al mare, inizio a riflettere sulle pratiche partecipative, sulle forme di condivisione e di scambio messe in atto in questi anni, sulla collaborazione nei processi creativi e su quando essa diventa co-autorialità.
Rileggendo, ho elencato i risultati concreti e misurabili prodotti dai processi di co-creazione eseguiti, ma ho anche preso coscienza degli effetti immateriali, difficilmente stimabili, legati all’esperienza soggettiva dei co-creatori che hanno partecipato. Effetti interiori e sociali che solo una diretta testimonianza può riconsegnare alla storia.
Mi sono chiesta qual è stata la mia personale esperienza di co-creazione: che cosa ho vissuto, come sono cambiata, e ho ricordato le numerose condivisioni in cui si esplicitavano le differenze di vissuto. Ho rivisto i contesti d’intervento e i temi sociali affrontati nei venti progetti site-specific e le preziose collaborazioni con cui è stato possibile farlo, riconoscendo il valore dell’interdisciplina e guardando all’arte come terreno di trans-disciplina. I singoli momenti del processo e gli strumenti esperienziali della co-creation methodology sono stati estrapolati, approfonditi e riorganizzati.
Molto altro si è chiarito e ha trovato un nuovo posto nella mappa concettuale di artway of thinking, altro si è dissolto.
Il risultato è scritto in una stringa di fogli A3 lunga quattro metri e mezzo. Dall’immagine d'insieme esce la spina dorsale della ricerca artistica sulla co-creazione: le interrelazioni sé-gruppo-ambiente, che sempre ho ricercato, fatto emergere, co-creato.